Per indagare le radici della parola giubileo dobbiamo rifarci all’Antico Testamento per comprendere meglio il Giubileo cristiano.

Filologicamente l’origine di Giubileo rimanda al suono di un corno di montone, jobel, che da Gerusalemme si diffonde in tutto il Paese in corrispondenza con la festa ebraica del Kippur, dell’espiazione del peccato di Israele, nel decimo giorno del mese di Tishri (il nostro settembre-ottobre). Esso era suonato in un anno particolare, l’ultimo di sette settimane di anni, a preannunciare la santità del cinquantesimo anno, come si legge nel capitolo 25 del libro del Levitico. Dunque il suono del corno scandiva un tempo sacrale. A tale proposito va ricordato che l’antica traduzione in greco della Bibbia (conosciuta come quella dei ‘Settanta’) ha tradotto il termine ebraico jobel con il greco áphesis, cioè “liberazione, remissione, perdono”. Ha considerato cioè come il Giubileo non è solo un rito, ma un’esperienza di vita che si auspica incisiva per ogni uomo e per la società intera.

Un’esperienza di vita che si esprime biblicamente, ad esempio, con la restituzione delle proprietà vendute, la remissione dei debiti. Secondo la Bibbia la terra di Israele era di proprietà delle tribù e delle famiglie ed era stata donata da Dio in usufrutto dopo la conquista di Canaan. Dunque la terra restava di Dio. Quando una terra veniva alienata, venduta, si modificava la mappatura originale. Ogni cinquant’anni, nell’anno giubilare, la mappatura originale si ricostituiva, tranne che per la tribù di Levi che riceveva dalle altre tribù o contributi per il suo servizio religioso. Analoga era la procedura giubilare per l’azzeramento dei debiti, così che tutti si ritrovassero a un medesimo livello di partenza.
Tali indicazioni giubilari erano proposte bibliche che è difficile pensare fossero pienamente osservate nella realtà. Del resto i profeti constatano amaramente che non erano seguite. Eppure qui si palesa la grande forza delle religioni che annunciano il regno di Dio, cioè qualcosa che va molto al di là della vita quotidiana e cui si deve tendere. Le religioni non sono delle semplici proposte, delle pur meritevoli ONG, ma hanno una funzione precisa: stimolare alla ricerca dell’eterno.
Nel Giubileo biblico, spesso si ricorda tra i contenuti la liberazione degli schiavi. Per esempio nel libro di Ezechiele (46, 17) si evidenzia come l’anno giubilare sia quello del riscatto anche delle persone, di chi per la miseria aveva dovuto rinunciare alla sua libertà e in quell’anno poteva ritornare a casa, riavendo terra e libertà. Non è poi un discorso che riguardi solo il passato: oggi di schiavitù ce ne sono anche più di un tempo, di singoli (pensiamo ad esempio alle prostitute o ai bambini costretti a elemosinare) e di popoli (basta constatare i ricatti cui soggiacciono da parte delle multinazionali, di Stati o di organismi internazionali). Nel già citato capitolo 55 del Levitico si condanna anche l’usura, che era diffusissima ad esempio in Mesopotamia, dove il tasso poteva variare dal 17 al 50%: “Se tuo fratello che è presso di te cade in miseria (…), aiutalo, (…) non prendere da lui interessi né utili; ma temi il tuo Dio e fa’ vivere tuo fratello presso di te”.
Nel Nuovo Testamento dove troviamo il termine giubileo? Il termine non c’è. Però, per diciassette volte ritroviamo la parola greca áphesis, che – come abbiamo già notato – significa “liberazione, remissione, perdono”. In particolare lo leggiamo nel Vangelo di Luca (4, 18-19), di cui ecco un passo molto significativo, in cui Cristo annuncia il suo Giubileo: Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato e mi ha inviato a portare ai poveri il lieto annunzio, ad annunziare ai prigionieri la liberazione e il dono della vista ai ciechi; per liberare coloro che sono oppressi e inaugurare l’anno di grazia del Signore”.
Su tali antecedenti (e anche altri, come la comunione in cui vivevano i primi cristiani) si inserisce poi la serie dei Giubilei (ordinari e straordinari) della Chiesa, il primo quello proclamato da Bonifacio VIII nel 1300 e ricordato da Giotto e forse da Dante. In quello successivo, di Clemente VI nel 1350, riscontriamo anche Petrarca tra i pellegrini (Movesi il vecchierel canuto e bianco dal dolce loco ov’ha sua età fornita (…) e viene a Roma, seguendo ‘l desío per mirar la sembianza di colui ch’ancor lassù nel ciel vedere spera – ossia il velo della Veronica con la presunta impronta del volto di Gesù). La forma del rito odierno risale in buona parte all’Anno Santo del 1500, promulgato da Alessandro VI. Naturalmente ci sono state delle variazioni, come nel 2000 quando con Giovanni Paolo II si è evidenziata l’universalità della Chiesa cattolica. Papa Francesco ha sostanzialmente inaugurato il Giubileo aprendo la prima Porta Santa a Bangui, nel Centrafrica: fin qui era stata aperta sempre a Roma, anche a significare la centralità della sede di Pietro. Un gesto, quello del Santo Padre, che ha esaltato ciò che connota maggiormente il Giubileo, cioè la virtù della Misericordia.
Volutamente il Giubileo annunciato da papa Francesco il 13 marzo e indetto l’11 aprile è straordinario e posto sotto il segno della Misericordia: una virtù quest’ultima che si ritrova in tutte e tre le grandi religioni monoteiste. Se pensiamo al termine misericordia, esso richiama (miseri – cordia) il cuore come sede dei sentimenti di compassione e condivisione verso i miseri. Invece nel linguaggio biblico tale sede è indicata nell’utero materno o nella generatività paterna. Infatti in ebraico viene usato il sostantivo rehem che connota originariamente il grembo materno e che metaforicamente viene trasferito a Dio, come in Isaia (49,15). Nel greco neo-testamentario, ricorre più volte il verbo splanchnízomai, che deriva dagli splánchna, le viscere materne della compassione. Questo verbo, ad esempio, è usato per indicare la commozione che Gesù prova di fronte al pianto della vedova di Nain che sta conducendo al cimitero l’unico figlio morto.
Nell’Islam quasi tutti i capitoli (sure) del Corano incominciano con “Nel nome di Dio clemente e misericordioso”, in arabo bismi Llah al-rahman al-rahim. I due aggettivi usati in arabo si connotano per la stessa radice rhm del termine biblico rehem. È interessante rilevare che il Dio del Corano è prima di tutto misericordioso, poi anche giusto. Il fondamentalismo musulmano mostra esplicitamente di ignorare il volto autentico della divinità come è espresso proprio nel Libro sacro.
Si può osservare che in ogni caso nel Corano non mancano pagine di grande violenza contro gli ‘infedeli’. Del resto anche l’Antico Testamento non è esente dall’immagine di un Dio terribile, guerriero e giustiziere. È per questo che, quando si trovano nei Libri sacri espressioni di violenza divina, è sempre necessario approfondire, cogliendo ciò che alimenta dal profondo tali testi. Bisogna cioè andar oltre il culto fondamentalista della lettera di un testo, perché – così si esprimeva San Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi 3, 6 – “La lettera uccide, è lo Spirito che dà vita”. La questione dell’interpretazione è indispensabile nei testi sacri ed è ciò che sostanzialmente è ancora assente nella tradizione musulmana. L’interpretazione teologica cattolica ha le sue norme che comprendono sia il Magistero ufficiale della Chiesa, sia l’impegno dei teologi, sia la fede condivisa dell’intera comunità ecclesiale.
Ancora sulla Misericordia: nella bolla papale – presentata l’11 aprile 2015 - di indizione del Giubileo straordinario, intitolata Misericordiae vultus, papa Francesco ha definito più volte la Misericordia, tra l’altro come “l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro” oppure come “via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato”. In un momento storico così crudo e spesso crudele, oppure così indifferente, il rischio maggiore è che non si abbia più compassione, comprensione, rispetto; insomma che vengano a mancare il perdono e la misericordia. Fermo restando, però, che le vittime esigono anche giustizia, la quale è il primo grado della misericordia e dell’amore.